Descrizione
Un paese a ferro di cavallo, di campi e di nebbia, sulle rive del Po. Dentro il paese, una comunità attraversata dal fascismo e dalla guerra. Dentro la comunità, due famiglie, quella dei Bunéet e quella di Bigìn, vecchi e giovani, donne e uomini che amano, lavorano, soffrono, intrecciando i loro destini. Coltivano il senso del buono e del giusto, mentre la vita si fa stretta e nera: come formiche immerse nella storia grande, portatrici di un lievito di idee, passioni e scelte che nascono dal rispetto della vita e diventano Resistenza. A dimostrazione che ogni ‘cria’, ogni briciola, può fare la sua parte. Gigi, la Rosa e i loro mondi ne sono lo sguardo e la speranza.
Alberto Facchini –
Leggere “Il cuore delle formiche” è un’esperienza di lettura affatto particolare. Seguiamo la storia (reale) delle due famiglie dei Buneet e di Bigìn fino ai terribili primi anni Quaranta della guerra. Storia di piccole formiche nel contesto della Grande Storia, quella dei potenti e dei prepotenti.
Leggere “Il cuore delle formiche” è come entrare in un mondo parallelo, che sa di passato recente ma anche di dimensione altra. Ti senti avviluppatə in queste storie familiari, in un modo molto diverso dalle classiche saghe familiari. È un viaggio nel passato attraverso la dimensione degli affetti, dei profumi e dei sapori di un mondo che suona lontano, ma che tuttavia ci risuona dentro come se l’avessimo appena lasciato.
Ecco, forse la potenzialità maggiore del libro è di non farci sentire la distanza storica, di immedesimarci nei fatti e nelle emozioni dei personaggi (tanti e memorabili, un affresco corale vivace e dinamico) come se ci vivessimo a fianco in questo momento, annullando il salto temporale. Ci invadono il nostro quotidiano e nel contempo ci rimandano altrove. Mentre leggevo sentivo Gino, Rosa, Ugo, Bigìn e tutti gli altri come se fossero al mio fianco. In alcuni passaggi ho provato una commozione profonda insieme a loro, come fossero ancora vivi e miei compagni di strada.
La narrazione procede accarezzandoti con toni teneri e soavi, il lettore viene coccolato dai passaggi lirici che sanno di terra e di pane, di sudore della fronte e di ansia per gli affetti lontani.
Il libro non cerca mai effetti letterari facili, drammatici o patetici. La Resistenza narrata dall’autrice, ad esempio, è quanto mai lontana dai toni retorici che conosciamo fin troppo bene. È una narrazione asciutta, mondata da facili orpelli, dove rimane l’essenza degli affetti e delle emozioni.
In un capitolo, forse uno dei più belli, ci troviamo dentro a una specie di parabola in cui due personaggi ci comunicano l’origine di una coscienza politica popolare che nasce dalla pratica quotidiana agricola, idee e visioni del mondo che fuoriescono dalle necessità quotidiane di solidarietà e di sostegno reciproco, non da un approccio intellettuale ma dalla materialità nella vita comune.
“Il cuore delle formiche” è una lettura che rimane nel cuore, che ci risuonerà a lungo anche dopo averlo riposto nello scaffale. Che ci farà rimanere nell’attesa speranzosa di un nuovo romanzo di Zena Roncada, che possa dare continuità a queste splendide storie.
Corrada Spataro –
Corrada Spataro – 17 agosto 2023
Mi trovo di fronte a una saga familiare che attraversa l’arco temporale compreso tra l’inizio e la fine della seconda guerra mondiale. Un genere letterario a me molto caro.
Chiudo l’ultima pagina del libro, la prima riflessione che mi viene in mente è quella di capire come ha fatto questo romanzo a sedurmi con un cielo di stelle velate che però m’invadono di bagliori. Il racconto è corale e ha una voce narrante che definisce luoghi e contesti storici e geografici, sociali e politici. I piani narrativi si muovono assieme, in particolare il primo ceppo, i nonni e l’ultimo, Rosa la nipote. Tutti i componenti della famiglia di nonno Bigin e quella dei Bunèet, sono distillati con gli occhi di Rosa.
Senza strappi.
In lei tutto si lega e si salda, anche i segreti più inconfessabili. Un cuore di bambina in cui ogni adulto formichina diventa un gigante. Resto a riflettere col libro in mano ripercorrendo personaggi e fatti per cercare di sintonizzarmi con il mio cuore di formichina che pulsa insieme alle mie riflessioni, presa per mano in un gioco di intesa e di sostegno con l’autrice: una, due, tre formichine come granelli di farina da portare via, a destra a piè di pagina. Formichine scansafatiche che aspirano a diventar parole.
C’è un’armonia che mi ha accompagnata dentro ogni cuore, un’armonia che convive con il dolore, la fatica, la rinuncia, le contraddizioni, la paura del vivere di tutti e di ciascuno e di cui ognuno a suo modo si sente sovrastare.
C’è la gente a margine di Po’ con la nebbia color di latte e le stelle ritagliate in ogni cuore.
C’è la gente di borgata con l’arte di arrangiarsi.
C’è la mia gente nelle strade arse dal sole che si rispecchia nelle facciate di chiese, di conventi e di palazzi, nel loro ondeggiare e traballare a guisa di mare.
Entrata a far parte di una grande famiglia, me ne stavo in un angolo appartato accanto alla piccola Rosa che dietro ogni formichina mi faceva scoprire la bellezza del suo essere fanciulla e poi donna. Le stavo profondamente accanto quella tragica sera in cui nonno Bigin che aveva saputo di aver perso parte della casa se ne stava – così vicino al pozzo, così vicino al pozzo: storto e sbilenco con un pendere a metà fra slancio e indecisione.
A generare emozioni e profonda affinità tra Rosa e Bigin ci pensavano i gesti, gli sguardi e il tocco della mano. Le parole stavano dietro, dopo.
Rosa lo sapeva bene, col nonno bastava.
Sapeva anche Rosa, che con nonna Matilde era diverso. Stava lì a regolare le cose di casa e soprattutto i denari e le spese, con l’asprezza e il malcontento di chi si affanna a rigirare gli altrui destini senza cedere dai propri convincimenti. Quando con malinconia salutava dal teatro di Bigin giocolieri, maghi e violinisti pensava ai suoi figli fuggiti via, lontani dal suo ordine di cose in fila nell’armadio. Tutto a rovescio il mondo…
E pensava all’Anna.
Lei sapeva che Anna andava sposa senza un sorriso e senza amore.
Anna che fece quel pasticcio: pagava così, con la rassegnazione di tutta una vita.
Una vita sottomessa in cui aveva rinunciato anche alla figlia – lei però rimane qui – disse
Giuseppe guardando a terra.
L’Anna muta e la Matilde anche.
La Rosa non si mosse dalla sedia. Continuò a scrivere sul quaderno col Pennino Presbitero Nazionale: fra un po’ la scuola sarebbe finita e avrebbe dovuto pulirli bene… – va bene – rispose la Matilde in modo sbrigativo, squadrando ferma l’Anna dentro gli occhi.
La Rosa resta qui con noi, è grande ormai, ha quasi otto anni.
Otto anni. Era l’età giusta per essere messa da parte dalla propria madre. Rifiutata.
Avrebbe voluto scomparire e rannicchiarsi in fasce come il fratellino.
Continuò a scrivere senza alzare gli occhi e una macchia di inchiostro fece un lago sul quaderno… Bigin le fece una carezza e sedette vicino a lei.
Sono gli anni degli scariolanti, anni di fame e di formiche sulla tavola… anni di madie vuote e di conti che si allungavano in bottega.
Gli anni in cui la guerra arriva anche nei piccoli borghi.
La partenza di un figlio segna uno spartiacque nelle famiglie. Rosa trattiene lacrime di solitudine e ancora di abbandono, e Bigin si appoggia al muro del cortile vuoto, senza un canto. La voce sembra appannarsi e farsi lontana.
Matilde pensa a Fernando, perduto dentro al suo sogno con la miseria sempre in aguato e i figlioli a morir di freddo. Sognava la giostra per la vita quel figliolo, con l’onda dei profumi di zucchero, nocciola e di frittelle.
Sono gli anni della guerra, quando ogni famiglia è atterrita per la partenza dei figli ma si industria per la sopravvivenza della comunità, per nascondere chi torna e non sa bene chi è il nemico da cui difendersi.
Le strade non servono a segnare i contorni dei luoghi su una mappa ma a costruire nell’animo un ricordo o una paura.
La guerra di Zena acchiappa la vita per metterla in gabbia e parla di disgrazia anche quando si sentiva in giro che a bere l’olio di ricino ora toccava a qualche fassista.
La guerra di Rosa ha gli occhi e le preoccupazioni di Gigi che sa bene che il fascismo non se ne va con una spallata a Mussolini, restava negli odi seminati, nella miseria della gente, nelle delazioni che spaccavano le comunità. Gigi l’aspettava all’uscita della Posta per accompagnarla a casa. E a casa i pensieri della Rosa erano per i dolori di Matilde e la precarietà delle sorti di Gigi iniziato alla resistenza e tanto provato già dalla campagna di Russia. È la guerra a colare lungo i muri come sangue vivo.
Ma tutti quegli anni sono anche gli anni di Turassa, l’uomo col braccio offeso, in bicicletta, sempre sorridente, un nome che sa di soprannome, di marionetta, di invenzione, che passava davanti casa sua e cercva i suoi occhi, per un saluto appena accennato.
Rosa subisce il divieto di Matilde non può fermarsi a parlare con Turassa.
Lui è l’estraneo, il rifiutato.
Lei si gira e con la manina dietro le spalle, lo saluta di nascosto. Un saluto bambino.
Turassa c’è stato sempre nella sua vita traducendo i desideri in realtà, ma in casa non bisognava parlarne. Riceveva in negozio dalla Ghelfa, caramelle e carrube, i Pennini Nazionali, quelli che voleva la maestra Jole, colori e quaderni. Tutto ciò che le era necessario ricevere, tutto ciò che le serviva e rendeva lieto il suo tempo di bambina.
– Costa tanto? – Per te non costa niente – era la risposta e a lei sembrava tutto una magia.
Dietro quella magia c’era Turassa. Sapeva chi era Turassa per lei. Sapeva che quell’uomo escluso da ogni affetto familiare era la sua ombra buona e una scheggia luminosa nel suo cuore. Personaggio singolare Turassa: inaffidabile e farfallone aveva detto Matilde, non era possibile affidargli sia la Anna che la Rosa.
Rappresenta il mosaico in cui ciascuno si trova incastrato, per dirla con Italo Calvino.
Una sera dopo giorni di magra c’erano due sacchi di farina proprio davanti alla porta… si intravvedevano bene poggiati al muro… Bigin sapeva che poteva essere un regalo soltanto di Turassa che faceva il mediatore di gramaglie…
In quei sacchi di farina Turasca nasconde il padre che vuole essere per la figlia e il lettore smarrisce il diverso e ritrova l’uomo. Oggetto della narratrice non è semplicemente il racconto della Storia attraverso i personaggi ma il sottile legame che via via si instaura con loro e che Zena offre ai lettori con uno stratagemma stilistico impalpabile e la Storia finisce col riflettersi in una narrazione a due voci.
Questo e tanto altro ci testimoniano le formichine poeta.
Un mondo che non sarà mai perduto se saprai dire: niente vendette, niente cercare chi ha tradito… ci pensino i fascisti… noi no.
Capì Rosa che a fare famiglia bastava solo la bontà e il perdono. In lei ci stavano tutti, Bigin e Matilde, Fernando, Cadorno e Regolo, Gigi, Turassa e la sua mamma con la sua tristezza.
Altro giro di valzer e cambio di cavalieri nel Paese a ferro di cavallo; intorno tanti personaggi senza fronzoli ma tutti con caratteristiche e obiettivi personali che difficilmente si sommano ma sanno unirsi agli altri con le loro virtù e le loro debolezze. Tante vicende, un unico filone narrativo: l’infanzia e la giovinezza di Rosa, la sua formazione.
Se Rosa si fida della magia quando è bambina, più avanti si affida ad uno spiritualismo laico e realistico che costituisce la forma del divenire del romanzo.
Uno spiritualismo che si inoltra dentro le parole dove non c’è spazio per una solitudine prolungata: c’è lo sguardo di una bambina archetipo delle variegate vicende umane.
Monica Colombara –
Piccolo preambolo: i tempi che corrono, per la lingua, sono derelitti. C’è in giro un pressappochismo, nella scelta e nell’uso delle parole, che provoca un dolore quasi fisico. Tonnellate di retorica facile, di ripetizioni martellanti ed esasperanti, di contorsioni verbali ad effetto per dire niente, un po’ ovunque, sui social e nella vita quotidiana. Post o articoli azzerati ad elenco trito e ritrito, da non poterne più. Non parlo di trasandatezza ortografica, parlo di un non sapere “cosa” dire e “come” dire, parlo dell’incapacità di articolare principali e subordinate in un periodo che traduca in pagina una profondità e complessità di pensiero (che non c’è), parlo di molteplicità di registri totalmente assente. Non capisco se alla base di questa comunicazione fallita, di questa canzone mononota, ci sia rassegnazione, analfabetismo montante o solo aridità di contenuti che non riescono a fiorire in nessun enunciato.
Per questo leggere Zena è abbeverarsi a una sorgente di acqua fresca. C’è un lavoro da orafo esperto dietro ogni frase: questo romanzo è un gioiello cesellato. Ma senza sofisticazione, anzi… C’è una naturalezza sbalorditiva in ogni periodo, una freschezza agile di storie che traggono linfa dallo stile e lo nutrono. La sua storia, fatta di storie, è così bella e rifinita perché è raccontata così e solo così e confesso di essermi soffermata oltre quindici minuti su certe espressioni per gustarmele e analizzare il lavoro accurato della loro elaborazione. La prosa che mi piace, colta, brillante, capace di passare dal bozzetto all’epopea, la prosa a cui affido volentieri il mio tempo (sospeso) senza saziarmi mai.
Questa prosa, bellissima, è parente stretta della poesia. È un abito di alta sartoria tagliato su una trama struggente. Preferisco non addentrarmi nella vicenda, che va scoperta e seguita (con partecipazione!), e assicuro che bastano davvero poche righe per affezionarsi ai personaggi e non riuscire ad abbandonarli più.
Se avete amato “Fontamara” di Silone, siete pronti per “Il cuore delle formiche” di Zena Roncada.
Questo libro ha il sapore del pane buono.
A margine: per un male che ho avuto, riesco a piangere di commozione con un occhio solo, ma quell’unico occhio ha fatto il suo dovere ?
Giulia Sivieri –
E’ impossibile non amare questo libro.
Zena Roncada conosce e possiede il potere antico delle parole, quello che incanta e crea. Con una prosa che è insieme poesia e musica, Zena ti accompagna in un minuscolo borgo in riva al Po ad osservare le vite ordinarie – ma così meravigliosamente uniche – di personaggi piccoli come formiche al cospetto della grandezza spesso brutale della storia. Vite che, come fili sottili, si intrecciano via via che il romanzo prosegue, fino a formare legami tanto stretti da riuscire a resistere ai colpi crudeli degli eventi: grazie all’amore, che sa tenere insieme ogni cosa.
Ed è lo stesso amore che si sente pervadere tutta la scrittura di Zena: quando ad esempio ti mostra dettagli piccolissimi ma sorprendentemente veri, e tu rimani stupita e grata per essere riuscita a vedere l’invisibile; quando ti accorgi che ogni singola parola – che riesce ad avere la concretezza della terra e la leggerezza della nebbia – è scelta con cura e affetto; quando scopri ovunque uno sguardo gentile, anche sul dolore e sullo strazio, che pure non risparmiano le vite dei personaggi.
Il cuore delle formiche è un libro di una bellezza struggente: commovente, intenso, prezioso. Io l’ho letto con il sorriso e le lacrime agli occhi.
Veronica Luciani –
“Il cuore delle formiche”
Dopo aver concluso la lettura di questo libro, vorrei esprimere la mia gratitudine alle amiche Letizia Perri per avermi “regalato” la conoscenza anche di Zena Roncada , scrittrice e autrice de “Il cuore delle formiche”, Temposospeso Editore, il suo ultimo romanzo.
Ne parlo così, per come questa lettura mi è arrivata e per come, nell’incontro, mi ha portato qualcosa di importante e prezioso.
“Il cuore delle formiche” è racconto che si dipana, cronologicamente, durante il periodo fascista fino alla fine della Seconda Guerra mondiale e questo sfondo storico entra in modo determinante nella narrazione perché coinvolge direttamente la vita dei protagonisti.
Protagonista è anche il luogo, un paese “a ferro di cavallo” sulle rive del Po, avvolto dalla nebbia ma anche da una natura rigogliosa e segnata dal ritmo delle stagioni, rispettosamente abitata dall’uomo che ancora ne conosce le leggi e ne sa sfruttare, con la fatica del lavoro quotidiano e con gratitudine, la ricchezza e raccoglierne i doni.
Romanzo, storia familiare e descrizione di un microsmo che sussiste fra mondo paesano e dimensione storica collettiva, “Il cuore delle formiche” diviene, vicenda dopo vicenda, rappresentazione viva di un macrocosmo.
Un racconto corale, in cui la drammaticità e anche la tragicità degli eventi e dei vissuti individuali, si stemperano, senza togliere valore e forza alla compassione e alla pietas umana, nella poeticità del linguaggio che tesse una prosa vivida, evocativa e sonora in modo originalissimo e da “sentire” con l’orecchio e col cuore.
Quasi ogni frase risuona ed è come un piccolo fiore, da osservare stupiti ed ammirati, tanto è ricca di ritmo e di significati.
Così come ogni personaggio che costruisce il racconto è un ventaglio di sottili sfumature, un controcanto al filo della trama, leggero ma altamente espressivo.
E questi personaggi mi hanno ammaliata, poiché ciascuno crea la propria storia, quella della famiglia, del paese e anche la “grande” storia ed hanno, al contempo, parlato, con immediatezza, anche come una mia personale parte interiore, in un gioco di inaspettate corrispondenze fra me lettrice e scrittura. Ciò si è attuato, appunto, per mezzo del linguaggio e del sapiente uso che ne fa l’autrice testimoniando un contatto profondo con la vita.
Bigín, Matilde, Rosa, Anna, Turassa, Fernando, Cadorno, tutti i Bunéet, Gigi, Dina, Iris e potrei continuare… hanno una loro precisa definizione e ruolo all’interno delle vicende narrate ma sono arrivati, con infinita delicatezza, fino a leggermi dentro. Ciascuno mi ha dato lo spunto per cogliere qualcosa di me e mi ha aiutato a riconoscerla e a riconoscermi nel mio percorso, sono diventati, tutti insieme, una piccola, preziosa mappa dell’anima.
Questo ha fatto per me “Il cuore delle formiche”, questo ha fatto per me Zena Roncada.
Non ho dubbi che porterà, in qualche modo speciale per ciascuno, un dono a tutti coloro che li incontreranno.